Interessante articolo sulle esperienze degli APAC (associazione di protezione e assistenza ai condannati), praticamente carceri a misura d'uomo in cui i condannati gestiscono diverse loro attività. Mi ha colpito soprattutto perchè, in generale, sono tanti i problemi legati al sovraffollamento delle carceri brasiliane e scarsa la loro efficacia se guardiamo quanti tornano a commettere crimini (consiglio al riguardo un articolo del 2009 molto dettagliato http://noticias.uol.com.br/cotidiano/2009/09/20/ult5772u5334.jhtm). Pensare che fra il 2000 e il 2007 il numero di carcerati è aumentato dell'81% (da 232.755 a 422.590)!
Questa
prigione non è una galera. Nell’Apac di Nova Lima,
Brasile,
i detenuti sono trattati da uomini
Nell’Apac
di Nova Lima sono i detenuti ad aprire la porta del carcere. Usano
coltelli, lavorano, stanno insieme ai liberi. Sono guardati e vivono
come persone. E ritrovano la propria umanità
È proprio come
raccontava Tomaz de Aquino Resende,
il procuratore brasiliano ospite del Meeting di Rimini l’anno
scorso. Non ci sono guardie, né armi, né manganelli, né divise
carcerarie, né filo spinato o cocci di bottiglia sopra i muri, e il
portone d’ingresso te lo apre un carcerato, uno che è lì dentro a
scontare la sua pena. Invece c’è gente al lavoro in una vera e
propria panetteria che serve le scuole comunali, nella cucina a
preparare i pasti per tutti, nel laboratorio del “regime chiuso”
a incollare tesserine di vetro su tondi di legno dipinti per
rimettere ordine nella propria testa. E tanti non ci sono perché si
trovano a lavorare fuori, nei cantieri, negli uffici comunali, nei
campi, ma torneranno tutti la sera e non ci sarà bisogno di contarli
perché rientreranno tutti. Ci sono in giro posate, coltelli,
martelli, strumenti musicali e altre cose ancora che i detenuti del
sistema comune, in Brasile come in Italia, non si possono nemmeno
sognare. E del personale amministrativo fanno parte uomini e donne
che nessuna barriera separa dai detenuti dei regimi aperto e
semi-aperto.
Gli
Apac (Associação de Proteção e Assistência aos Condenados),
prigioni pensate e operate per recuperare il detenuto anziché per
punirlo, esistono, noi ne abbiamo visitata una. Poco distante da Belo
Horizonte, capitale del Minas Gerais, in mezzo al verde esuberante
delle colline di Nova Lima, dove le notti sono molto fresche e il
calore ti investe all’ora di pranzo, le mura azzurrine suggeriscono
qualcosa che va oltre l’ordinario. «Il metodo che si applica qui
si riassume in tre parole: amore, fiducia, disciplina. Come avete
visto il portone non ve l’ha aperto una guardia, ma un recuperando.
Qui non c’è posto per manette, polizia, cani da guardia, perché
tutto lo spazio è occupato dall’amore: l’amore per le nostre
vite del giudice che ci ha permesso di venire a scontare la nostra
pena qui, l’amore dei volontari che ci assistono e ci
accompagnano». João Carlos Silva è un umile muratore che si è già
fatto sei anni di prigione, nell’Apac e nel sistema comune, e altri
ancora ne dovrà scontare per un reato che non vi diciamo. Ma parla
come un poeta, o più semplicemente come un uomo dentro al cui cuore
la gratitudine ha preso il posto dello sconforto. Con naturalezza
pronuncia la parola “recuperando”, che qui non ha il solito suono
vuoto dell’eufemismo di maniera, ma finalmente esprime armonia:
tutte le comunicazioni nelle bacheche sono dirette ai “signori
recuperandi” e tali loro si sentono. Su una delle pareti sta
scritto il motto più noto degli Apac: «Aqui entra o homem o delito
fica lá fora». Cioè «Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori».
È la chiave del metodo: per recuperare il detenuto occorre far
riemergere l’umano che è in lui, sepolto sotto tante cose delle
quali il delitto per cui è stato condannato è la più pesante.
Schiacciato dalla colpa, un uomo non si redime e non si recupera. Se
si comincia togliendo quel peso, tutto diventa possibile. Perfino
accettare di convivere con quelli che nelle altre prigioni sono gli
unici detenuti segregati per non finire linciati: i condannati per
stupro e per pedofilia.
Si
comincia con una preghiera
«Il sistema comune punisce tutti e non
recupera nessuno. Ti fa diventare un animale, un mostro. Non c’è
alcuna prospettiva di vita sociale, ne uscirai peggiore di come sei
entrato», racconta José Antonio Junio, che deve scontare 33 anni di
carcere per una serie di rapine e ha trascorso 7 anni nelle carceri
comuni prima di approdare, nove mesi fa, all’Apac di Nova Lima. È
assegnato, per il momento, al regime chiuso, che non permette di
uscire all’esterno per lavorare o per visite alle famiglie, ma nel
quale è possibile ricevere periodicamente visite dei familiari senza
le umiliazioni cui sono sottoposti nelle prigioni comuni (con
perquisizioni a luci rosse) e persino della propria moglie o
compagna, con la quale ci si può periodicamente appartare per
qualche ora. Se ce lo si è meritati con un comportamento
irreprensibile. «Anche qui sono un detenuto, ma non mi sento un
detenuto. Ogni essere umano è recuperabile, ma bisogna far emergere
l’umano che è in lui. In un sistema che opprime il carcerato e la
sua famiglia, questo non è possibile. Qui sono trattato come una
persona, e ciò mi ha fatto capire che un certo tipo di vita non
conviene. Il dialogo, la comprensione, il rapporto con la tua
famiglia ti fanno riscoprire i valori dentro di te e vuoi
intraprendere una nuova vita. Chi viene qui viene nella casa di Dio,
perché l’Apac è sorto ai piedi della Croce».
Il
misticismo di Junio non è per niente estemporaneo. La spiritualità
è parte integrante del cammino di recupero immaginato quarant’anni
fa da Mario Ottoboni, l’avvocato di San Paolo coinvolto in
esperienze di pastorale carceraria che ha creato e diffuso il metodo
degli Apac. In tutte e tre le sezioni della prigione esiste una
cappella riservata alla preghiera personale non solo per aiutare gli
esami di coscienza, ma perché, come diceva l’avvocato paulista,
«la redenzione personale ha bisogno dell’intercessione». In tutte
e tre una volta alla settimana (non la domenica, giorno riservato
alle visite dei familiari) si assiste alla Messa o al servizio
protestante. Tutte le mattine la giornata inizia alle 7 con una
preghiera ecumenica comunitaria, e a chi non partecipa viene
affibbiato un punto di penalità. Una volta all’anno bisogna anche
partecipare a un ritiro spirituale che si chiama Giornate di
liberazione con Cristo, una tre giorni di testimonianze cristiane,
preghiera e riflessione personale che coincide col Carnevale (durante
il quale vengono annullati tutti i permessi d’uscita per non
indurre in tentazione i recuperandi) e a cui prendono parte molti
esterni.
Insomma
nell’Apac si trovano riuniti nella stessa struttura gli stessi
regimi carcerari che esistono separati nelle prigioni comuni (chiuso,
semi-aperto e aperto, ai quali a Nova Lima sono assegnati
rispettivamente 36, 24 e 10 detenuti, per un totale di 70
soggiornanti); gli alloggiamenti sono migliori delle celle
sovraffollate delle altre prigioni ma simili ai più scadenti fra
quelli italiani. Vi si trovano celle piccole e poco illuminate che
ospitano in uno spazio ristretto quattro detenuti in coppie di letti
a castello ricavati in strutture in muratura oppure camerate da
sedici posti nei regimi aperto e semi-aperto. Ma la vita è
completamente diversa. I detenuti convivono con personale
amministrativo civile e con volontari, perché l’Apac di per sé è
un ente no profit proprietario o gestore dell’istituto di pena:
ebbene sì, in Brasile esistono carceri privatizzati, gestiti dal
privato sociale.
Una
donna per capo
Quello di Nova Lima, per esempio, è stato donato
dal Comune insieme al terreno su cui sorge all’Apac locale, che
oltre a remunerare una piccola quota di personale amministrativo, si
preoccupa di attirare a prestare la loro opera singoli volontari e
associazioni, che rappresentano il legame della struttura con la
comunità locale. I volontari sono medici, psicologi, dentisti,
avvocati o semplici cittadini che si prestano ad accompagnare i
detenuti in ospedale o in qualche ufficio amministrativo. Ad essi si
aggiungono sacerdoti e cristiani impegnati che animano i ritiri
spirituali. «I volontari ci piacciono tantissimo», spiega Silva,
«perché vedere gente che dedica il suo tempo gratuitamente per noi
ci aiuta a recuperare la stima in noi stessi e la voglia di
migliorare». Sandra Gil Carneiro Tibo, la presidente dell’Apac di
Nova Lima che svolge compiti analoghi a quelli di un direttore
penitenziario, trascorre qui dieci ore al giorno, dalle 8 alle 18, ed
è una volontaria non retribuita. I detenuti si sentono onorati del
fatto che le autorità si fidino a tal punto da permettere che sia
una donna a interagire con loro senza barriere, come accade negli
Apac.
L’educazione
alla responsabilità
Nessun detenuto trascorre la giornata nelle
celle: quelli del regime aperto e semi-aperto lavorano all’esterno
oppure nella panetteria interna che sforna 5 mila panini al giorno
per le mense scolastiche comunali ma anche, gratuitamente, per i
detenuti del carcere comune, e nella cucina, dove sono i detenuti
stessi, a turno, a preparare i pasti per tutti coloro che all’ora
di pranzo e di cena si trovano dentro alla struttura. Quelli del
regime chiuso si dedicano al bricolage terapeutico, alla musica
(hanno un coro e una band entrata in crisi dopo che il chitarrista è
stato “promosso” al regime semi-aperto) e alla pallavolo. Tutti
sono entusiasti della cucina: «Non c’è paragone fra il cibo che
mangiavamo nelle carceri comuni, che aveva sempre sapore di andato a
male oppure era freddo, con quello che viene acquistato dai
responsabili degli Apac e che noi stessi cuciniamo e mangiamo con
vere posate, non con cucchiai di plastica!», spiega Silva. La
politica degli acquisti alimentari e della preparazione del cibo è
uno dei motivi, insieme all’assenza di guardie carcerarie, del
notevole risparmio nei costi di un Apac rispetto a quelli di un
carcere comune: in questi ultimi un detenuto costa 2.100 reais al
mese, in un Apac solo 900 (vale a dire 803 e 344 euro
rispettivamente). In quello di Nova Lima, il 30 per cento dei costi
sono coperti dai proventi del lavoro dei detenuti (i quali sono
compensati con 250 reais al mese, quasi 100 euro, e si vedono scalato
un giorno di detenzione ogni tre giorni di lavoro), il 70 per cento
da fondi dello stato del Minas Gerais.
Si
diceva all’inizio che i capisaldi del metodo Apac sono amore,
fiducia e disciplina. Il terzo punto è assai importante. Il metodo
Apac funziona perché i detenuti sono trattati come persone, ma anche
perché sono responsabilizzati per quello che avviene all’interno
della struttura. In caso di infrazioni gravi, come la fuga o
l’introduzione di droga o alcolici o telefoni cellulari
individuali, aggressioni e furti, a pagare sono tutti i detenuti del
regime in cui avviene l’illecito, che si vedono negare privilegi
relativi alle telefonate, alle visite familiari e ad altro. Il
singolo colpevole viene rispedito per sempre nel sistema comune.
«L’Apac è per tutti, ma non tutti sono adatti all’Apac»,
filosofeggia un detenuto.
Un
modello anche all’estero
Promozioni e retrocessioni da un regime
all’altro avvengono sulla base delle penalità accumulate o evitate
nel corso della detenzione se si commettono colpe leggere o medie. Il
computo delle penalità lievi e medie e la loro cancellazione in
forza di comportamenti virtuosi sono invece responsabilità di un
organismo composto esclusivamente di detenuti: il Consiglio di
sincerità e solidarietà. Ce n’è uno in ciascun regime. Il suo
presidente è scelto dalla direzione fra i detenuti della relativa
sezione, dopodiché lui sceglie altri sei detenuti con cui si
riunisce e delibera quando si verificano infrazioni. Le gerarchie di
potere e di controllo fra detenuti, che in tutte le carceri del mondo
esistono informalmente e inevitabilmente diventano strumento di abusi
e ingiustizie, qui sono formalizzate e messe al servizio del recupero
di tutti i detenuti.
Nati
a San Paolo, oggi gli Apac si trovano quasi esclusivamente nel Minas
Gerais: è lì che si concentrano 33 dei 35 attualmente funzionanti
in Brasile. Ma nel mondo esistono molte esperienze che si ispirano a
questo modello: in Canada, Colombia, Cile, Costa Rica, Bolivia,
India, eccetera. In Italia no. Non ancora.
Fonte: www.tempi.it
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